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L’Ungheria dopo South Stream

La decisione della Russia di abbandonare il progetto South Stream ha provocato sconcerto e preoccupazione in Ungheria, dove il Governo di Viktor Orbán si è esposto pesantemente a livello diplomatico per trasformare il Paese nel principale hub del gas russo per l’Europa centrale.

Solo il mese scorso Budapest aveva persino approvato un disegno di legge volto a facilitare la costruzione di gasdotti stranieri sul territorio nazionale, sfidando la normativa ufficiale dell’Unione Europea in materia. Ora la cancellazione di South Stream rende praticamente inutile tale misura, indebolendo seriamente la posizione di Orbán sia sul piano interno che su quello internazionale.

DISAPPUNTO E RECRIMINAZIONI – Commentando i principali temi di attualità ai microfoni della radio MR1 lo scorso venerdì, Orbán non ha nascosto affatto tutto il suo disappunto per la decisione di Vladimir Putin di rinunciare a South Stream, pur apprezzando la “serietà” mostrata dal Presidente russo nel gestire la vicenda. Il premier ungherese ha anche accusato l’Unione Europea di “aver lavorato incessantemente” per bloccare il progettato gasdotto attraverso il Mar Nero, danneggiando gli interessi vitali del suo Paese e mettendo a rischio l’economia dell’intera regione danubiana. In tal senso, Orbán ha ribadito la volontà dell’Ungheria di perseguire una politica indipendente in ambito energetico, trovando una via d’approvvigionamento alternativa ai gasdotti della vicina Ucraina.

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Fig. 2 – Incontro tra Orbán e Putin nel gennaio 2014

A dispetto dei toni forti verso Bruxelles, Orbán è apparso parecchio sulla difensiva nel suo intervento radiofonico, rivelando parzialmente il duro colpo inferto al suo Governo dalla chiusura di South Stream. L’Ungheria era infatti tra i maggiori beneficiari del faraonico gasdotto promosso da Gazprom, ospitandone un tratto considerevole sulla strada per Austria e Slovenia. Inoltre, il coinvolgimento diretto nella costruzione di South Stream offriva a Budapest la possibilità concreta di rilanciare la propria economia, ancora convalescente dopo la grave crisi del 2009. Con oltre il 40% delle abitazioni ungheresi riscaldato da gas naturale, la nuova infrastruttura energetica di Gazprom prometteva sia una sensibile diminuzione delle tariffe energetiche che un aumento del tasso d’occupazione nazionale, con nuovi assunti nei vari servizi di manutenzione e distribuzione legati al gasdotto nel Sud del Paese. Da qui la decisione del Governo Orbán di privilegiare i legami con la Russia rispetto a quelli con gli altri partner dell’Unione Europea, provocando dure controversie con Bruxelles soprattutto dopo l’inizio della crisi ucraina nella primavera del 2014. In tale occasione Budapest si è infatti schierata quasi subito al fianco di Mosca, criticando spesso il nuovo Governo di Kiev e ostacolando le sanzioni promosse dall’Unione Europea contro la Russia dopo l’inizio della guerra civile nel Donbass. Finchè il progetto South Stream è apparso realizzabile, Orbán ha sostenuto questa politica filo-russa senza alcuna esitazione, ignorando le critiche dell’opposizione parlamentare socialista e i pesanti attacchi personali della stampa occidentale. Adesso però l’Ungheria rischia di pagare a caro prezzo la fallita scommessa diplomatica del suo leader.

SOTTO ATTACCO – Lo stesso Orbán e il suo Governo si sentono sotto assedio, minacciati dal crescente malcontento dell’opinione pubblica e dal pressing politico-mediatico degli altri Paesi europei. Allo stesso tempo gli Stati Uniti hanno attaccato ripetutamente le Autorità di Budapest per le loro misure restrittive su diritti civili e libertà di stampa, negando addirittura il visto d’ingresso ad alcune personalità minori dell’Esecutivo ungherese sospettate di corruzione. Naturalmente la politica filo-russa di Orbán non ha fatto altro che esasperare tale ostilità, spingendo il Senatore repubblicano John McCain a dipingere il premier ungherese come un pericoloso “dittatore neo-fascista” alleato del Cremlino. Per un’opposizione socialista debole e divisa, queste azioni statunitensi hanno offerto l’occasione per lanciare una serie di grandi manifestazioni di piazza contro il Governo, provocate anche dal maldestro tentativo dell’Esecutivo di imporre una tassa sull’uso di Internet. Durante una di tali manifestazioni alcuni dimostranti a volto coperto hanno attaccato brevemente il quartier generale di Fidesz a Budapest, danneggiando un paio di finestre e tentando di occupare con la forza i locali del palazzo. Nonostante l’intervento risolutivo della polizia, l’incidente ha suscitato viva preoccupazione nel Partito del premier, che teme la ripetizione di uno scenario “rivoluzionario” come quello di Euromaidan, magari supportato da personale diplomatico straniero.

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Fig. 3 – Scontri tra manifestanti anti-Orbán e polizia di fronte alla sede centrale di Fidesz (ottobre 2014)

La risposta di Orbán non si è fatta attendere: il Ministro degli Esteri Péter Szijártó ha esposto una formale protesta all’Ambasciata americana per le dichiarazioni di McCain, mentre le Autorità ungheresi studiano una possibile lista di personalità politiche statunitensi da tenere fuori dal Paese. Inoltre, il Governo sta cercando di rafforzare ulteriormente la propria presa sui media nazionali, tassando le entrate pubblicitarie di radio, tv e giornali. D’altro canto Orbán ha promesso di combattere la corruzione interna del suo Partito, dando parziale soddisfazione al crescente scontento popolare nei confronti di Fidesz. Molti però dubitano della sincerità delle sue intenzioni: lo scorso giugno il caporedattore del sito web Origo è stato infatti licenziato proprio per via dei numerosi servizi dedicati dal suo portale allo scandalo dei rimborsi spese dei deputati di Fidesz, chiaro segno delle pressioni governative contro ogni istanza indipendente anti-corruzione.

PRAGMATISMO – Pur ferito dal fallimento di South Stream, Orbán sembra quindi intenzionato ad andare avanti per la propria strada, seguendo i recenti modelli di “democrazia illiberale” promossi da Putin in Russia e da Erdogan in Turchia. Il premier ungherese ha anche intenzione di rilanciare la cooperazione energetica con Mosca, nella speranza di resuscitare il South Stream o di sostituirlo con progetti infrastrutturali più localizzati. In tal senso, Orbán ha avuto colloqui telefonici con Putin nei giorni scorsi, ventilando la possibilità di una partnership più efficace tra i due Paesi nel settore del gas naturale. Tuttavia il Governo di Budapest resta aperto anche ad una maggiore collaborazione energetica con gli altri membri dell’Unione Europea, cercando valide alternative al turbolento scenario dei gasdotti russi e ucraini. È probabile quindi che Orbán non punterà più tutte le sue carte su una stretta relazione col Cremlino, adattandosi pragmaticamente agli sviluppi della crisi Russia-Occidente e all’evolversi del mercato energetico mondiale.

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Fig. 4 – Manifestazione contro il Governo Orbán a Budapest (novembre 2014)

Le attuali scorte di gas dell’Ungheria dovrebbero consentire un inverno relativamente tranquillo, supportando questa strategia di tipo attendista. Allo stesso tempo il Governo ha ottenuto una serie di risultati economici positivi da usare per rintuzzare le critiche dell’opposizione: Eurostat ha infatti confermato un alto tasso di crescita del PIL ungherese per il 2014 (+3,1%), mentre il numero di automobili immatricolate nel Paese ha conosciuto un balzo in avanti di circa il 20% rispetto al 2013, con colossi come Ford e Volkswagen in cima alle vendite. Inoltre, le finanze pubbliche di Budapest continuano a godere di buona salute, registrando un surplus attivo di 95 miliardi di fiorini nello scorso mese di novembre. Per il futuro politico di Orbán sembra dunque esserci ancora speranza, a dispetto di South Stream e John McCain.

Simone Pelizza

[box type=”shadow” ]Un chicco in più

Colleen Bradley Bell è il nuovo Ambasciatore degli Stati Uniti in Ungheria, nominata ufficialmente dall’Amministrazione Obama la scorsa settimana. La Bell è produttrice della famosa soap opera televisiva Beautiful, trasmessa con successo anche in Italia dai primi anni Novanta, e ha ottenuto il posto in virtù dei sostanziosi finanziamenti raccolti per la campagna elettorale di Obama nel 2012, inclusi 800mila dollari versati personalmente nelle casse del Partito Democratico. Inutile dire che l’esperienza diplomatica della Bell è praticamente inesistente e ciò ha provocato le vibrate proteste del Senatore repubblicano John McCain, che ha tentato inutilmente di bloccarne la nomina al Congresso. Circa il 41% degli attuali Ambasciatori americani all’estero è composto da personalità dell’economia o dello spettacolo nominate esclusivamente per “meriti” politici. [/box]

 

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Simone Pelizza
Simone Pelizzahttp://independent.academia.edu/simonepelizza

Piemontese doc, mi sono laureato in Storia all’Università Cattolica di Milano e ho poi proseguito gli studi in Gran Bretagna. Dal 2014 faccio parte de Il Caffè Geopolitico dove mi occupo principalmente di Asia e Russia, aree al centro dei miei interessi da diversi anni.
Nel tempo libero leggo, bevo caffè (ovviamente) e faccio lunghe passeggiate. Sogno di andare in Giappone e spero di realizzare presto tale proposito. Nel frattempo ho avuto modo di conoscere e apprezzare la Cina, che ho visitato negli anni scorsi per lavoro.

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