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Germania, modello o spauracchio?

Attualmente non c’è Paese membro dell’UE che sappia dividere l’opinione pubblica meglio della Germania. Detrattori e sostenitori del modello socio-economico tedesco alimentano di rancore e ammirazione un dibattito a tratti ‘sportivo’, come se la ripresa continentale dipendesse dalla vittoria di una o dell’altra squadra. È possibile attribuire al ruolo pervasivo della Germania all’interno delle Istituzioni europee la responsabilità di un’impasse politico-economica senza precedenti? O è nel rispetto del dettame tedesco che i partner europei, martoriati dalla crisi economica, riusciranno a intraprendere la tanto agognata via della crescita? Facciamo luce.

ANTICHE ABITUDINI – Ci si chiede, spesso ricorrendo a una arcaica diceria quale la naturale tendenza al dominio, da cosa derivi la rispettabilità, nonché la reverenza di cui gode incommensurabilmente la Germania. In altre parole, dove trova origine la fama di Paese virtuoso, esempio di stretta convergenza tra ragion di Stato e benessere sociale? L’incompletezza del processo di integrazione europea, nella forma e nella sostanza, ha concesso alle attuali generazioni un sistema, che, alla luce di quanto detto dal filosofo francese Etienne Balibar, potremmo definire «misto», ovvero molto più federale di quanto non lo percepisca la maggioranza dei cittadini, ma meno democratico di quanto affermi di essere. Il virtuosismo tedesco trova in questo paradosso una certa forma di legittimazione. Vediamo perché. Prima che l’UEM venisse istituita, alla vigilia delle firme del Trattato di Maastricht, vi fu un ardito dibattito tra i partner europei su quali dovessero essere i tratti somatici della futura Banca centrale europea. Si affermarono quelli che all’epoca – parliamo dei primi anni Novanta – rappresentavano i modelli vigenti in Europa, l’anglo-francese e il tedesco. Nonostante la maggioranza dei Paesi europei propendessero per il modello anglo-francese a prevalere fu il modello tedesco. Come ben argomentato da Paul de Grauwe in Economia dell’unione monetaria, la BCE assunse le sembianze della Bundesbank tedesca e pertanto il dogma della “stabilità dei prezzi” (e di conseguenza la lotta all’inflazione) divenne il primus tra gli obiettivi della neonata Istituzione. La Germania del post-riunificazione seppe, meglio di altri, sintetizzare i criteri di convergenza scaturiti dal Trattato di Maastricht e, alla luce delle sfide imposte dall’avvento di un sistema multipolare, persuadere i partner europei della necessaria quanto irrinunciabile adozione di un regime di cambi fissi, il quale avrebbe agevolato i trasferimenti di capitale nel mercato interno e reso la nuova Unione europea soggetto commerciale unitario. Incline alla concezione monetaristica, la quale prevede che la Banca centrale debba essere svincolata da interferenze politiche nazionali, la Germania dapprima ottenne che la BCE assumesse i connotati dell’Istituzione federale, a patto che fosse stabilito quale obiettivo principale la stabilità dei prezzi, infine spinse per un ritorno al cambio fisso senza possibilità d’aggiustamento, relegando a strumento del passato la democratica politica dei cambi.

SU QUALI PUNTI DIVERGONO SOSTENITORI E DETRATTORI? – Tuttavia, quanto espresso nel paragrafo precedente non esaurisce certamente le cause di un successo economico fino al decennio scorso impensabile. Non vi è ragione per credere che la sola stabilità dei prezzi e l’approdo a cambi fissi, sfociato poi nell’adozione della moneta unica, possano, inequivocabilmente, agire da panacea a tutti i mali di cui un Paese soffre. A tal riguardo, i sostenitori del modello socio-economico tedesco non conoscono barriere nazionali, convinzioni ideologiche, partiti e confessioni: provengono dalle più disparate categorie sociali e della parabola tedesca apprezzano la disciplina fiscale, la lotta alla corruzione e le formidabili prestazioni produttive. È parere condiviso che ciò derivi da una mitologica attitudine al rigore, che nel rispetto degli impegni presi trova massima espressione. Con audacia viene smentita l’ipotesi per la quale la Germania si sia servita, patrocinandone il progetto, dell’Unione economica e monetaria come spazio per esercitare il proprio neo-mercantilismo, scaricandone gli effetti collaterali sulle economie limitrofe – l’onere dell’importazione intensiva. Per converso, ritengono dipenda dalla massima integrazione del mercato interno la sventata sciagura economica e alla Germania attribuiscono l’onore di aver “scortato” fuori dalla crisi, attraverso una massiccia politica di investimenti esteri, i partner europei. Sebbene il dibattito presenti convincenti punti di vista da ambo le parti, esistono molteplici assunti incontrovertibili. L’europeismo del quale spesso vengono bollate le cancellerie tedesche ha poco a che fare con l’idealismo dei padri fondatori. Il lirismo di certi discorsi, nella fattispecie quelli che solitamente aprono semestri e campagne elettorali, è presto sostituito da autoreferenziale e cinico realismo. Non a caso, è con «l’Europa del letteratissimo Voltaire […] degli artisti e dei letterati, degli scienziati e delle accademie» (Federico Chabod, Storia dell’idea d’Europa), che ogni leader inaugura se stesso presso i partner europei, salvo poi dedicarsi alla salvaguardia dell’interesse particolare. È proprio da questa apparente contraddizione che i detrattori del modello tedesco muovono le proprie argomentazioni. Quando Helmut Kohl definì l’Europa «il nostro futuro», si estese nel continente la consapevolezza che la Germania avrebbe collaborato alla creazione di un’Unione appannaggio di tutti, guardiana delle diversità intrinseche, ma audace nell’esercizio delle proprie funzioni. Rincuorati da certe affermazioni, i Paesi europei mostrarono reverenza nei confronti del neo-riunificato partner tedesco e accettarono che una mai prima d’ora sperimentata Unione economica prendesse forma. Ciò che la maggior parte dei firmatari del Trattato di Maastricht trascurò fu proprio la stretta correlazione dicotomica tra Unione economica e monetaria e salvaguardia delle diversità economiche intrinseche a ogni Paese. Eminenti personalità del mondo economico-accademico, Paul Krugman per citarne una, ammonirono la scelta di Paesi dai fondamentali divergenti di procedere all’integrazione monetaria, ritenuta rischiosa e dai contorni destabilizzanti.

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La sede della BCE a Francoforte

CONCLUSIONI – Il regolamento UE n.1176/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 novembre 2011 sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici, prevede che per gli «[…] Stati membri che accumulano avanzi elevati delle partite correnti, le politiche dovrebbero mirare a individuare e attuare misure che contribuiscano a rafforzare la domanda interna e il potenziale di crescita». Che la moneta unica abbia intensificato, se non esasperato, lo sviluppo di disavanzi è al vaglio degli studi economici. Tuttavia, su un punto detrattori e sostenitori possono essere d’accordo: la Germania meriterà l’attributo di guida, che è quanto auspicano coloro i quali ritengono le spetti il ruolo di locomotiva dell’Europa, solo quando riconoscerà di appartenere a un’area valutaria non ottimale, dove il vantaggio di uno è lo svantaggio di qualcun altro, che è quanto denunciano i detrattori.

Daniele Morritti

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Un chicco in più

Il regolamento UE n.1176/2011 dovrebbe istituire un meccanismo di allerta per la rapida individuazione degli squilibri macroeconomici emergenti (comma 10). Tale meccanismo di allerta prevede l’istituzione di un Quadro di valutazione composto di alcuni indicatori economici, finanziari e strutturali, i quali fungono da parametro per la misurazione di eventuali squilibri. Il regolamento, nel suo complesso, è rivolto alla salvaguardia della stabilità economica all’interno dell’Unione e ogni Paese membro è tenuto a rispettarne obbligatoriamente gli elementi. [/box]

 

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Daniele Morritti
Daniele Morritti

Sono laureato in scienze internazionali e diplomatiche. Attualmente frequento un master in Relazioni internazionali presso l’Université Libre de Bruxelles.

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