venerdì, 29 Marzo 2024

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Israele e Palestina, al di là del tifo

Una simulazione di una “discussione tipica” sul conflitto israelo-palestinese. E qualche considerazione su alcuni modi di valutarlo. Perchè se si rischia che vada sempre peggio, non serve tifare, ma iniziare a pensare a come promuovere opportunità di riconciliazione, anche – e soprattutto – partendo dal basso

Premessa

Prima di fare una analisi sugli attori in gioco e sullo scenario, dovremmo fare una bella riflessione sul nostro modo di vivere il conflitto israelo-palestinese. Sì, perché non stiamo parlando di un derby tra due squadre di calcio, ma di un conflitto che dura da quasi settant’anni, o da più di un secolo, a seconda dei punti di vista. Non serve sbandierare granitiche certezze che ci dicono che il torto è assolutamente da una parte e la ragione assolutamente dall’altra, non serve tifare perchè uno annichilisca l’altro, ma capire come fare per arrivare alla pace. Per cui varrebbe la pena di evitare di prendere posizioni da ultrà, tra l’altro mentre magari ci disinteressiamo completamente di conflitti che sono lì a due passi e negli ultimi anni hanno fatto un numero di morti 500 volte superiore a quello di Gaza.

Simulazione

Venendo alle discussioni nel merito, invece, un ipotetico dialogo tra le parti funziona più o meno così.

“Pure l’invasione di terra, dopo aver bombardano dai loro aerei sui civili. Ma hai visto le foto dei bambini sulla spiaggia?”

“Distinguiamo tra obiettivi civili e militari”

“Sapete benissimo che la densità a Gaza è tale che è impossibile distinguere tra obiettivi civili e militari”

“Noi prima avvisiamo. E loro disprezzano la vita umana, utilizzano i civili come scudi umani, nascondono i razzi nelle scuole. E hanno detto di no alla tregua”

“Una tregua in cui neanche si interpella una parte in causa. E comunque, 250 morti a 2. La reazione è completamente spropositata”

“Solo perché Iron Dome, il nostro sistema di protezione dai razzi, funziona bene. È legittima auto-difesa. Come sempre nella storia siamo noi quelli attaccati. Quale Stato starebbe a guardare quando ti lanciano centinaia di razzi sulle tue città?”

“Sono disperati. Avete chiuso Gaza a chiave, lasciando la popolazione alla fame”

“Noi da Gaza ce ne siamo andati”

“E dovete farlo anche dalla Cisgiordania”

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“Sì certo, così ci sparate i razzi a meno di 10 km di distanza da Gerusalamme, come no. Potevate evitare voi di farvi la guerra civile e lasciare i terroristi al potere. Hamas non è lì per caso, li avete votati voi nel 2006″

“Ma li avete sostenuti anche voi ai tempi, per contrastare Fatah. E nel 2006 Fatah era emblema di corruzione, mentre Hamas garantiva pane, istruzione, assistenza sanitaria. E poi Hamas quasi vi conviene, tiene lontana gente ben più pericolosa, Isis e compagnia”

“Vediamo se a casa tua suonano le sirene ogni ora, se parli di convenienza”

“La realtà è che ve ne siete andati da Gaza costruendo un muro di separazione che toglie dignità, che ci lascia in condizioni di vita terribili, in tutta la Palestina”

“Quale Palestina? E comunque, da quando abbiamo costruito il muro, i vostri attentati kamikaze sono drasticamente calati, praticamente a zero”

“Non è così per i vostri insediamenti, che continuano ad aumentare in Cisgiordania, costruendo una situazione de facto che rende impossibile una soluzione di due Stati”

“Impossibile qualsiasi cosa, se di là c’è solo violenza”

“Come facciamo a cambiare atteggiamento quando l’occupazione si inasprisce sempre più? E poi, Hezbollah ed il vostro ritiro dal Libano insegnano: pare che la violenza sia l’unico linguaggio che ascoltate, per ritirarvi da dei territori”

“Ma anche volendo i due Stati nel lungo periodo, anche andando per gradi, con un appoggio internazionale alle spalle, con chi possiamo parlare di negoziati? Chi è l’interlocutore attendibile che parla a nome di tutto il popolo palestinese? Non esiste da anni, e lo sapete anche voi”

“Abbiamo appena fatto un Governo di unità nazionale tra Hamas e Fatah per avere un unico interlocutore, ma ce lo condannate in ogni modo. E i due Stati comunque non li volete, gli insediamenti lo dimostrano. Anche a Gerusalemme Est è ormai una situazione intollerabile”

Quale Est? Gerusalemme è stata proclamata nel 1980 capitale unica, eterna, indivisibile dello Stato di Israele”

“Il prossimo Stato palestinese non potrà che avere Gerusalemme Est capitale”

“Come si fa a parlare di Stato palestinese? Appena si accenna di farvi una concessione, iniziate una Intifada”

“Tipo la seconda, nella quale avete rioccupato tutta la Cisgiordania, distruggendo qualsiasi infrastruttura e facendo migliaia di morti? Ma di quali concessioni parli??”

“Proprio quell’Intifada, quando l’attività di voi Palestinesi era quella di fare un attentato kamikaze a settimana,  sui nostri bus, nelle nostre scuole, nei nostri posti di ritrovo. Avete sempre usato la violenza e il terrorismo come strumento di contrattazione”

“Semmai è l’arma del debole, risposta per liberarsi dall’occupazione, contro il vostro uso eccessivo della forza. La vostra attività invece non è ancora cambiata, visto che tra i vostri coloni c’è chi continua a lanciare sassi ai bambini palestinesi che vanno a scuola”

“Solo pochi estremisti”

“Coloni e soldati che ci impediscono di muoverci liberamente sulle nostre terre o ci umiliano ai check-point sono molti invece”

“Ancora parlate, dopo che avete ucciso tre dei nostri ragazzi”

“Ne avete bruciato vivo uno”

“Noi abbiamo condannato subito l’episodio e arrestato i colpevoli, voi?”

“Abu Mazen l’ha fatto immediatamente”

“Sì, poco dopo aver fatto un Governo di unità nazionale con Hamas 

“Il punto è che volete annientarci, dopo averci messo in condizioni di apartheid. Dopo la prima Intifada non abbiamo ottenuto nulla, dopo gli pseudo accordi di Oslo del ’93 sono triplicati i vostri insediamenti, dopo Camp David avete rioccupato la Cisgiordania… è evidente che voi non volete la pace”

“Esatto, il punto è proprio che voi volete annientarci. Non riconoscete il nostro Stato ebraico, mentre noi a Oslo abbiamo riconosciuto i vostri diritti, e in cambio sono iniziati i vostri attentati kamikaze; dopo Camp David nel 2000 avete iniziato la Seconda Intifada, dopo il ritiro da Gaza è iniziato il lancio di razzi di Hamas… siete voi che non volete la pace!”

“Bella, la vostra pace, occupandoci tutte le terre, dopo che una risoluzione Onu di 47 anni fa dice che ve ne dovete andare anche dalla Cisgiordania, e la ignorate da sempre”

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“Quelle terre sono contese, non occupate. Lo sapete, perché tante di quelle ce le avete vendute voi. Bella la vostra, di pace: ogni volta che c’è stata una proposta di accordo, avete rifiutato tutto, a partire dal 1947-48, quando avete rifiutato la proposta Onu ed è nato Israele”.

“Il 1948 è solo l’anno della nostra tragedia nazionale, la Nakba, e nient’altro”

“Che viene poco dopo l’Olocausto, al termine del quale non avevamo altri posti in cui venire se non questo. E direi che non conviene aggiungere nulla, ci manca solo il negazionismo”

“Ma in questo posto c’era altra gente. L’idea del sionismo di “un popolo senza terra per una terra senza popolo”, era drammaticamente falsa. Il popolo c’era. E neanche abbiamo parlato del dramma dei nostri profughi”

“Che non potranno mai tornare, lo sapete. E comunque, tutti i cosiddetti “fratelli arabi” dei Paesi vicini hanno trattato i vostri profughi molto peggio di noi. A proposito poi, quale popolo? Esistono i Palestinesi? Da quando? Erano Arabi, poi Giordani. Cos’è questa causa palestinese?”

“Tutte le identità nazionali sono percorsi, si formano col tempo. Voi avanti così, a bombardarci. Cosa otterrete? Nulla, come nelle ultime due vostre guerre a Gaza. Continuate a pensare solo al breve periodo, noi abbiamo tempo. La nostra intifada è demografica, è quella delle culle, come diceva Arafat”

“Chiacchiere. La realtà è che questo status quo di violenza a voi va benissimo”

“Va benissimo a voi, più che altro”.

Un confronto tra chi?

Questo confronto immaginario poteva essere tra un Israeliano e un Palestinese, ma in realtà anche tra ciascuno di noi, schierati da questa o da quell’altra parte. Paradossalmente, in questo dialogo tra sordi, gran parte delle cose scritte, in assoluto, sono vere. Ma manca il relativo, manca la relazione, il prendere minimamente in considerazione il punto di vista dell’altro, concentrati esclusivamente sulla propria “narrativa” del conflitto. Quante analisi lette, anche in questi giorni, che riportano solo una delle due visioni espresse qui sopra.

Bisognerebbe quasi fermarsi un attimo e chiedersi come mai questa “sproporzione” tra i nostri mille dibattiti e prese di posizione su questo conflitto e la sostanziale indifferenza per molti altri. È destino che il conflitto tra Israele e Palestina divida: non solo ovviamente chi lo vive, ma anche il mondo intero. Troppe volte però la volontà di dare giudizi, di schierarsi e affrettarsi a riconoscere ragioni di uno e torti dell’altro, rende superficiale la visione.

Il muro di separazione visto da Abu Dis, Cisgiordania, vicino a Gerusalemme
Il muro di separazione visto da Abu Dis, Cisgiordania, vicino a Gerusalemme (foto dell’autore)

Sempre peggio?

Aggiungiamoci inoltre che lo scenario sembra in peggioramento, per diverse ragioni. Proviamo qui a sintetizzare tre punti:

1)      Le parti sembrano non essere mai state così lontane. La sfiducia reciproca è a livelli quasi mai visti, dopo che nel 2000-2001(Camp David e Taba) ci si era avvicinati come mai ad un accordo di pace. Anche per il muro in mezzo a loro da un decennio, le giovani generazioni non si conoscono minimamente, hanno in mente solo estremi e stereotipi dell’altra parte, così come descritti nella simulazione. Ma gli Israeliani non sono come quei coloni, i Palestinesi non sono come quei kamikaze.  E la beffa è che tutto sommato già sappiamo come finirebbe buona parte di un ipotetico accordo di pace, sulla falsariga di quanto proposto da Clinton a Camp David, con uno smantellamento di gran parte degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, mantenendo i più grandi a fronte di scambi territoriali, e nessun diritto di ritorno per i profughi palestinesi. Il nodo centrale più controverso è invece Gerusalemme, e la sua possibile divisione tra la parte ovest capitale di Israele, e la parte est capitale dello Stato palestinese, con un possibile status internazionale sulla Città vecchia, su cui però non è mai stato trovato un punto di incontro nemmeno teorico (la Città vecchia è il cuore della città, su cui franarono le trattative a loro tempo, al cui interno vi è il Muro del Pianto e alla sua sommità la Moschea Al Aqsa, terzo luogo più sacro dell’Islam). Il tema, comunque, è provare a tornare a sedersi al tavolo, e ricostruire questo percorso e questo dialogo.

2)      La politica internazionale può contribuire a questo, ma poi sono le due parti che devono giocarsi per la pace, ed entrambe sono ora troppo “schiave” dei ricatti della propria politica interna. Tra i Palestinesi la frammentazione è evidente: il Governo di unità nazionale recentemente formato mostra grandi fragilità, Abu Mazen è un presidente debole e ormai da anni senza legittimità, e la stessa Hamas è divisa tra diverse anime, politiche e militari. Anche Netanyahu è ostaggio di Ministri e Partiti con visioni ben più estreme della sua, e se tornasse seriamente a negoziare, il suo Governo cadrebbe immediatamente.

3)      Il punto è che tutti guardano al brevissimo periodo, quando dovrebbero provare ad andare oltre, a guardare al medio-lungo, dove un accordo conviene a tutti. Ai Palestinesi, mai così frustrati e disillusi, che non potrebbero che vedere un miglioramento delle loro condizioni di vita. Agli Israeliani, fosse solo per una questione demografica: il 2014 è il primo anno in cui, considerando Israele e i Territori palestinesi insieme, il numero di Ebrei sarà inferiore al 50%. Entro trent’anni, la prevalenza palestinese sarà netta. E allora Israele nel medio periodo non potrà rinviare la sua scelta tra le sue tre caratteristiche fondamentali: essere nello stesso tempo uno Stato ebraico, una democrazia ed una realtà volta ad espandersi il più possibile. A stretto giro, Israele dovrà rinunciare a uno dei vertici di questo triangolo. Uno stato democratico che comprenda anche i Territori occupati, per sua natura non potrà più essere ebraico, e in estrema sintesi, stando così le cose tra qualche decennio il premier israeliano potrebbe essere arabo. Un Grande Israele che mantenga la natura ebraica dello Stato, per forza di cose non potrà più assolutamente essere una democrazia. Infine, un Israele che si mantenga ebraico e democratico non potrà che restituire i Territori e favorire, direttamente o indirettamente, la nascita di uno Stato palestinese al suo fianco.

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E quindi?

Dunque, noi cosa possiamo fare? Poco, in verità. Ma già provare ad allargare lo sguardo e a cambiare atteggiamento non sarebbe male. Non c’è nessun conflitto religioso davanti a noi, ma quello più umano e terreno possibile: un appartamento da dividere tra due inquilini. Davanti a violenza e conflittualità, quello che serve non è schierarsi con posizioni nette o sbandierare ragioni unilaterali, ma riconoscere se vi siano elementi che possono portare a scenari diversi, a processi, se non di pace, quantomeno di ricomposizione.

La catena infinita di torti, errori e ragioni di entrambe le parti va spezzata. Non importa chi ha iniziato. Importa chi smette. E allora bisogna avere il coraggio di andare oltre le proprie narrative, riconoscendo anche le ragioni e il dolore dell’altro (un esempio su tutti è questo: la mamma di uno dei tre ragazzi israeliani uccisi a Hebron) e iniziare a chiedersi, ad esempio, se il proliferare continuo di insediamenti, o i raid di Gaza, siano davvero il “bene” degli Israeliani, e se i razzi di Hamas e il non riconoscimento di Israele e dei suoi diritti siano davvero “il bene” dei Palestinesi.

Dennis Ross, diplomatico Usa che curò tutto il processo da Oslo a Camp David negli anni ’90, ha dichiarato facendo autocritica che il fallimento di quel percorso è stato dovuto al fatto di non aver coinvolto le popolazioni: mentre i leader provavano ad avvicinarsi, le persone si allontanavano sempre di più. Questo è un punto che sembra banale ma è in realtà centrale: servono percorsi di conoscenza reciproca, puntando sull’educazione di giovani e bambini, serve che – diversamente dalla situazione attuale – tutti i libri scolastici palestinesi disegnino Israele su una cartina geografica, così come tutti i libri scolastici israeliani traccino la green line. Tra il dire e il fare c’è di mezzo un oceano, lo sappiamo, e non abbiamo soluzioni concrete da proporre. Ma la differenza sta nel porsi o meno questa questione, per provare a cercare nuovi spunti, occasioni, approcci per iniziare questo nuovo percorso. Solo così potrà iniziare a svilupparsi quella cultura del compromesso – doloroso, rischioso, necessario – senza il quale le due parti non solo non arriveranno alla pace, ma faticheranno addirittura a sedersi nuovamente allo stesso tavolo. E quando torneranno lì, ci saranno ancora attentati e tentativi di frenare questo percorso. Ma se ad ogni persona uccisa si ricomincia da capo, si annulla tutto, ad un accordo non si arriverà mai.

Tra le due parti magari non scoppierà mai l’amore o la fratellanza, ma dovrà esserci un “equo divorzio”, in cui ciascuna delle parti dovrà sacrificarsi e cedere qualcosa di proprio. È inevitabile. Riportiamo qui le parole di Amos Oz, uno dei più grandi scrittori israeliani: “Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita, e dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è sinonimo di integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Lo stiamo vedendo in questi giorni. È proprio così.

Alberto Rossi

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Alberto Rossi
Alberto Rossi

Classe 1984, mi sono laureato nel 2009 in Scienze delle Relazioni Internazionali e dell’Integrazione Europea all’Università Cattolica di Milano (Facoltà di Scienze Politiche). La mia tesi sulla Seconda Intifada è stata svolta “sul campo” tra Israele e Territori Palestinesi vivendo a Gerusalemme, città in cui sono stato più volte e che porto nel cuore. Ho lavorato dal 2009 al 2018 in Fondazione Italia Cina, dove sono stato Responsabile Marketing e analista del CeSIF (Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina). Tra le mie passioni, il calcio, i libri di Giovannino Guareschi, i giochi di magia, il teatro, la radio.

Co-fondatore del Caffè Geopolitico e Presidente fino al 2018. Eletto Sindaco di Seregno (MB) a giugno 2018, ha cessato i suoi incarichi nell’associazione.

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