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Una crisi emblematica – I

Quanto accaduto nelle scorse settimane in Costa d'Avorio con l'arresto del presidente uscente Gbagbo (foto) non si può semplicemente catalogare alla voce “drammatico risvolto post elezioni”. La semplificazione mediatica è assai lontana dal comprendere le vere ragioni dello scenario ivoriano. Per andare a fondo della questione è necessario ripercorrere il cammino storico del Paese, per capire come la prosperità di un tempo sia potuta naufragare in guerra civile. Il Caffè, in due puntate, vi accompagna in questo viaggio

UNA CRISI AFFATTO BANALE – La crisi sviluppatasi in Costa d’Avorio e solo recentemente conclusa con l’esautorazione del presidente uscente Laurent Gbagbo è emblematica di alcune delle difficoltà cui deve far fronte la democrazia in Africa. I media e la maggior parte degli analisti si sono generalmente occupati dello stallo post-elettorale, con un presidente uscente che rifiutava di riconoscere il risultato proclamato dalle autorità elettorali e si rifugiava in quello, artefatto, del Tribunale Costituzionale e un presidente eletto riconosciuto dalla pratica totalità della comunità internazionale ma confinato in un albergo di Abidjan assieme al suo governo. La Costa d’Avorio ha avuto per quattro mesi due governi, uno legale ma pressochè impotente e uno di fatto ma isolato dal mondo.

In quest’ articolo vorremmo invece ritornare su alcuni aspetti a monte della crisi, che è non certo nata dal nulla, come un fulmine a ciel sereno, ma è il risultato di uno scenario conflittuale che per anni non ha fatto che prepararla. E valutare quali sono le lezioni per la governance africana. La soluzione di questa lunga crisi non è in effetti che l’ultimo atto di un processo di divisione di questo paese, ricco di risorse e per lungo tempo esempio di stabilità nel continente africano, iniziatosi con la morte del padre dell’indipendenza e presidente dal 1960 al 1993, Félix Houphouët-Boigny.

GIOIE E DOLORI DELLA FRANCAFRIQUE – Houphouët-Boigny fu il tipico esempio della Françafrique, quel modello di gestione del potere nelle neo–repubbliche indipendenti dell’Africa coloniale francese che univa al mantenimento di relazioni forti tra i paesi indipendenti e la Francia un rapporto di sudditanza / paternalismo tra Parigi e tali paesi, governati da presidenti totalmente francesizzati per cultura e percorso. Houphouët costituisce, con il senegalese Senghor, poeta e intellettuale e apostolo della négritude, l’esempio piu’ probante di tale concezione, che faceva tra l’altro così comodo all’antica metropoli, che pur perdendo formalmente un impero lo manteneva di fatto, sia in termini di penetrazione economica (supportata anche dal Franco CFA, moneta comune della regione, garantita dal Tesoro francese) che d’influenza geopolitica. Sparito l’impero coloniale, rimaneva appunto la Françafrique, backyard di dominazione esclusiva francese.

Il contro esempio di tale modello fu la Guinea di Sekou Tourè, l’unico paese che rifiutò il modello gollista d’indipendenza, ruppe del tutto i contatti con la Francia ed è rimasto a languire per cinquant’anni alla coda del plotone dei paesi africani.

Rispetto al Senegal di Senghor, la Costa d’Avorio aveva il vantaggio, che mantiene tuttora, d’essere un paese molto ricco in risorse naturali, in primis il cacao, di cui Abidjan è uno dei primi produttori mondiali. Ma anche il caffè, il legno, la frutta tropicale.  

TENSIONI ETNICHE SOTTO CONTROLLO – Sul rafforzamento di questo settore primario esportatore si costruisce la prosperità ivoriana, e il paese diviene la destinazione di migliaia d’emigrati dai paesi limitrofi. Il metodo politico di Houphouët, una dittatura paternalista finanziata dal benessere economico, mantiene sotto controllo anche le tensioni etniche, una costante preoccupazione nel contesto africano, che torneranno a emergere solo dopo la sua morte. In maniera simile al caos post–Tito in Jugoslavia, la morte del padre–padrone del paese nel 1993 fa saltare equilibri consolidati, aprendo il vaso di Pandora dell’instabilità, che accompagnerà la Costa d’Avorio sino ad oggi.

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UNA SUCCESSIONE DIFFICILE – Laurent Gbagbo, sindacalista e socialista, si è contraddistinto sin dagli anni 70 come l’oppositore per antonomasia dell’houphouetismo. Ma non sarà l’alternanza che prevarrà al momento della sparizione di Houphouët, ma la continuità, nella persona del presidente dell’assemblea legislativa, Henri Konan Bédié, che ne diventerà il successore prevalendo sull’altro candidato, il primo ministro Alassane Ouattara. La costituzione ivoriana non era chiara su questo punto, ma Konan Bédié prevarrà su Ouattara anche per ragioni etniche: Ouattara era un mussulmano del nord, Konan Bédié un cristiano del centro – sud. Questa è la chiave di volta della crisi ivoriana da allora ad oggi.

Konan Bédié non aveva le doti carismatiche ed aggregatrici di Houphouët, nè la situazione economica negli anni novanta è paragonabile a quegli anni sessanta e settanta che furono la base del modello houphouetista. Dal canto suo, Ouattara inizierà una carriera internazionale nelle istituzioni di Bretton Woods che contribuirà a renderlo un candidato con contatti estesi nel mondo e riconosciute competenze professionali, che gli verranno buone più in là.  

IVORIETA', CHIAVE DI TUTTI I MALI – Nel 1994, un fragile Konan Bédié apre una battaglia che finirà per spaccare il paese: quella dell’”ivorietà”, che porta a una modifica del codice elettorale tesa a impedire la candidatura di Ouattara. Ricordiamo che all’interno dell’Africa Occidentale Francofona le frontiere amministrative erano molto labili. Quando i paesi divengono indipendenti, essi si creano frontiere internazionali, e centinaia di migliaia di cittadini non ivoriani risultano residenti in un paese che sappiamo prospero. La comunità più numerosa è quella “burkinabé”, mussulmani del nord, cui appartenevano anche i genitori di Ouattara, l’avversario politico più pericoloso per Bédié. La perniciosa scelta di costui, assecondata dal capo dell’opposizione, Gbagbo, di modificare il codice elettorale per far fuori polticamente Ouattara sarà il fattore che originerà la guerra civile del 2002, dando passo a uno sciovinismo che era sconosciuto nel paese.

Nel 1995 le elezioni sono boicottate da tutti i partiti d’opposizione. Bédié verrà poi spodestato in un colpo di stato nel 1999, diretto dal generale Robert Guéï. Nelle elezioni del 2000 questi verrà battuto da Gbagbo, ma non accetterà i risultati elettorali prima che inizino degli scontri che l’indurranno a ritirarsi.  

SCOPPIA LA GUERRA CIVILE – Nel 2002, la profonda divisione tra nord e sud provocata dall’acutizzarsi del dibattito sull’”ivorietà”, che aveva per obiettivo ritirare la cittadinanza a migliaia di persone, porta alla guerra civile tra les Forces Nouvelles, basate a Boauké, e le forze governative. Tra alti e bassi, la guerra continuerà sino al 2007, mantenendo il paese diviso di fatto in due, come rimane oggi.

Gli accordi di Marcoussis del 2003 vedranno il primo tentativo di ricomporre le differenze tra nordisti e sudisti, mediante l’entrata di ministri della ribellione al governo e l’interposizione di forze militari francesi (operazione Licorne) e della CEDEAO. Ma saranno solo gli accordi di Ouagadougou, simili a quelli di Marcoussis ma conclusi grazie alla mediazione del presidente del Burkina Faso Compaoré che permetteranno di concludere il conflitto armato. Ougadagou include la formazione di un governo d’unità nazionale, diretto dal leader politico dei ribelli, Guillaume Soro, la creazione di un organismo elettorale indipendente, la CENI, la derogazione della legge elettorale del 1994 che aveva tenuto fuori da tutte le elezioni il nordista Ouattara e la tenuta d’elezioni sulla base di un nuovo censimento elettorale che avrebbe dovuto fare chiarezza su chi avesse davvero diritto a votare (la tesi dei sudisti è sempre stata che i nordisti avessero intenzione di occupare il potere facendo votare in massa cittadini del Burkina).

(1. continua)

Stefano Gatto redazione@ilcaffegeopolitico.net

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